Articolo originariamente pubblicato su StartUp News.
Il primo consiglio che Martin Lindstrom – massimo esperto di neuromarketing e tra gli speaker del Philip Kotler Marketing Forum tenutosi a Bologna poche settimane fa – offre alle aziende con cui lavora è quello di trascorrere del tempo in contatto diretto con i loro clienti. È un consiglio disarmante, perché è allo stesso tempo banale e costantemente ignorato. Anche nel mondo delle startup.
I big data raccontano una parte della storia
I metodi ormai classici per misurare il successo di un nuovo servizio sono quasi esclusivamente basati sulla sorveglianza passiva e automatizzata dell’utente. Metriche che riguardano il comportamento dei visitatori di un sito, la frequenza di utilizzo di una determinata funzione in un’app, o il numero di download. Raccogliere dati è sempre più facile, e il fascino di metriche quantitative che spesso offrono indicatori di performance apparentemente univoci spingono ad utilizzare queste informazioni come elemento imprescindibile per determinare strategie di sviluppo aziendale.
Un approccio superato
Questo approccio, però, ha varie controindicazioni. La più ovvia riguarda il fatto che le metriche così raccolte raccontano solo parte della storia, e possono spesso essere fuorvianti: un utente trascorre poco tempo su un sito perché ci trova subito l’informazione che gli interessa, o perché non trova niente di suo interesse? Clicca spesso su una voce di menu perché la utilizza o perché ne fraintende il senso?
Per rispondere
a queste domande, l’attuale sistema di monitoraggio del cliente basato
su metriche quantitative spinge ad aggiungere nuovi strumenti per
misurare ancora più nel dettaglio cosa fa l’utente in un determinato
momento, o a condividere i dati raccolti con aziende terze che
facilitano il processo di analisi dei dati così raccolti. In sostanza,
vi sono tanti incentivi per raccogliere sempre più dati e condividerli
con altre aziende che facilitano monitoraggio e analisi.
Martin Lindstrom ci spinge a chiederci se è davvero questo il miglior approccio per comprendere i bisogni dei nostri utenti, e come il nostro prodotto può rispondere alle loro esigenze. Parlare con 10 persone e osservare come viene utilizzato il nostro prodotto può essere più istruttivo che avere dati illusoriamente precisi su 100.000 sessioni utente.
Spunti per le startup
Startup tecnologiche spesso si trovano in una situazione ideale per testare i benefici degli small data rispetto ai big data. Le startup, infatti, si trovano nella condizione di avere sia la necessità che, in sostanza, l’obbligo di innovare e stupire. In questo mondo dove ormai si ha la percezione che ogni nostro passo sia osservato, e che non abbiamo alternative al fornire il nostro assenso all’ennesima richiesta di accettare cookie e termini di utilizzo, esplicitamente rifiutare questo modello di raccolta dei dati può consentire a startup di farsi notare ed emergere dalla folla dei competitor.
Ad esempio, come sarebbe per una startup avere un sito che si apre con il seguente messaggio: “Questo sito non utilizza cookie per monitorare il tuo comportamento. Rispettiamo davvero la tua privacy. Se c’è qualcosa che ti piace o non ti piace, faccelo sapere.”?
Metriche di base raccolte utilizzando tecniche meno invasive della privacy combinate con precision marketing basato su small data e interazione “human to human” tra startup e utente possono essere un modo per farsi notare, ma anche per scoprire che a volte piccolo è meglio non solo in termini di dimensione dell’azienda (si parla spesso del vantaggio competitivo che viene dalla snellezza delle startup), ma anche per comprendere e rispondere a esigenze ancora invisibili agli occhi dei competitor ostinatamente fissati su metriche e big data.